Atomo

Un atomo è la più piccola unità fondamentale della materia che conserva le proprietà chimiche di un elemento. È una struttura microscopica composta da particelle subatomiche chiamate protoni, neutroni e elettroni. Gli atomi costituiscono i mattoni fondamentali della chimica e si combinano per formare molecole, composti e materiali.

Struttura dell’atomo

  1. Nucleo:
    • Situato al centro dell’atomo, contiene i protoni e i neutroni.
    • Protoni: particelle con carica positiva (+1). Il numero di protoni, detto numero atomico, determina l’identità chimica dell’atomo (ad esempio, un atomo con 6 protoni è un atomo di carbonio).
    • Neutroni: particelle prive di carica (neutre). Il numero di neutroni può variare tra atomi dello stesso elemento, formando isotopi.
    • Il nucleo concentra quasi tutta la massa dell’atomo.
  2. Elettroni:
    • Particelle con carica negativa (-1) che si muovono intorno al nucleo.
    • Gli elettroni si trovano in regioni chiamate orbitali, distribuite in livelli energetici o gusci. La disposizione degli elettroni determina le proprietà chimiche e la reattività dell’atomo.

Caratteristiche fondamentali

  • Carica dell’atomo: In un atomo neutro, il numero di elettroni è uguale al numero di protoni, bilanciando le cariche. Se un atomo guadagna o perde elettroni, diventa uno ione.
  • Dimensioni: Gli atomi sono estremamente piccoli, con dimensioni tipiche nell’ordine dei nanometri (10-9 metri).
  • Massa: La massa di un atomo è principalmente determinata dal nucleo, dato che protoni e neutroni sono molto più massivi degli elettroni. L’unità di misura utilizzata è l’unità di massa atomica (u).

Modelli atomici

La comprensione dell’atomo si è evoluta nel tempo:

  1. Modello di Dalton (1803): l’atomo è una particella indivisibile.
  2. Modello di Thomson (1897): l’atomo è una sfera di carica positiva con elettroni immersi (modello “a panettone”).
  3. Modello di Rutherford (1911): l’atomo ha un nucleo centrale carico positivamente, attorno al quale orbitano gli elettroni.
  4. Modello di Bohr (1913): gli elettroni occupano orbite definite con livelli di energia specifici.
  5. Modello quantistico (anni 1920): gli elettroni non seguono orbite definite, ma sono descritti come una nuvola di probabilità in regioni chiamate orbitali.

Modello atomico di Dalton

Prima dell’Ottocento, la nozione di atomo era relegata per lo più all’ambito filosofico: filosofi greci come Democrito e Leucippo avevano già introdotto l’idea di una materia composta da particelle indivisibili, ma il pensiero rinascimentale e la rivoluzione scientifica del XVII secolo non erano riusciti a fornire una solida base empirica a questa ipotesi. Newton, Boyle e altri avevano considerato in modo speculativo l’esistenza di particelle fondamentali, ma le loro affermazioni rimanevano prive di dimostrazioni quantitativamente robuste.

Nel Settecento, grazie agli esperimenti di Lavoisier sulla conservazione della massa e alle leggi delle proporzioni definite di Proust, si iniziò a intravedere un possibile fondamento empirico per una teoria atomica della materia. John Dalton (1766-1844), chimico, fisico e meteorologo inglese, si inserisce in questo contesto: egli fu in grado di condensare i risultati di molte ricerche chimiche in una teoria coerente, utilizzando gli atomi per spiegare fenomeni osservati sperimentalmente e relazionati a grandezze misurabili come la massa.

Il nucleo del ragionamento di Dalton consisteva nel far corrispondere i dati sperimentali sul comportamento ponderale degli elementi con l’ipotesi che la materia fosse composta da entità minime, gli atomi, dotate di massa costante e definita. Grazie alla legge delle proporzioni definite di Proust (secondo cui un determinato composto chimico contiene sempre gli stessi elementi nello stesso rapporto in peso) e alla sua stessa legge delle proporzioni multiple (che afferma che quando due elementi si combinano per formare più di un composto, le quantità in peso di un elemento che si combinano con una quantità fissa dell’altro stanno tra loro in rapporti semplici e piccoli numeri interi), Dalton poté dedurre l’esistenza di entità discrete.

I postulati fondamentali di Dalton

  1. Atomi come unità fondamentali e indivisibili della materia:
    Il primo postulato si fondava sulla convinzione che l’atomo fosse l’ultima frontiera della divisibilità della materia, un’entità compatta e solida. Sebbene oggi sappiamo che l’atomo è ulteriormente divisibile in elettroni, protoni e neutroni, e che a loro volta queste particelle hanno struttura interna ancora più complessa, per l’epoca di Dalton si trattava di un enorme passo in avanti. L’idea di avere una “unità base” della materia forniva una struttura teorica potente, permettendo di superare la concezione continua della sostanza e di dare un senso chimico agli elementi.
  2. Atomi di uno stesso elemento identici in massa e proprietà:
    L’enfasi di Dalton sulla massa atomica come caratteristica distintiva fu un punto chiave. Facendo ricerche su svariati composti, Dalton notò che il rapporto di combinazione in peso tra due elementi non era casuale ma seguiva regole costanti. Questo lo portò a ipotizzare che fosse la massa degli atomi a definire in che modo essi si combinavano. Tuttavia, le conoscenze moderne rivelano che gli atomi di uno stesso elemento possono avere masse diverse (isotopi), differenza non considerata nel modello di Dalton. Questa scoperta, avvenuta all’inizio del XX secolo, non invalida la logica di Dalton, ma ne limita l’assunto di uniformità assoluta degli atomi di un elemento. Nonostante ciò, l’idea di Dalton che la “firma” di un elemento risieda nel suo atomo rimane tuttora valida, a condizione di considerare le varianti isotopiche.
  3. Atomi di elementi differenti con masse e proprietà diverse:
    Questo postulato fu fondamentale per costruire una “tavola” (antesignana del concetto di peso atomico) in cui confrontare i diversi elementi. Dalton arrivò a proporre un primo insieme di pesi atomici relativi, prendendo come riferimento l’idrogeno, considerato l’elemento con atomi più leggeri. L’idea di pesi atomici relativi consentiva di stabilire rapporti numerici tra masse atomiche di diversi elementi, aprendo la via a future generalizzazioni e, più avanti nel tempo, allo sviluppo della tavola periodica di Mendeleev.
  4. Composti come unione di atomi in rapporti numerici semplici e costanti:
    La nozione che i composti fossero costituiti da atomi di diversi elementi combinati in proporzioni fisse chiarificava in maniera definitiva le osservazioni sperimentali. Se l’acqua ha sempre 8 g di ossigeno per ogni 1 g di idrogeno (circa), ciò implicava che un atomo di ossigeno si combinava sempre con due atomi di idrogeno, dando origine alla formula H₂O (anche se Dalton propose inizialmente formule a volte non corrette, come HO per l’acqua, la logica di partenza era quella giusta, anche se era ancora in corso il processo di definizione delle masse atomiche relative con precisione).
  5. Indistruttibilità degli atomi nelle reazioni chimiche:
    Dalton fece propri i principi della conservazione della massa, sviluppati da Lavoisier, e li reinterpretò in chiave atomica. Se gli atomi sono elementi fondamentali non distruttibili, allora le reazioni chimiche non possono che essere semplici riarrangiamenti di atomi, non creazione o annichilazione di materia. Questo gettò le basi per comprendere le reazioni chimiche come processi di rottura e formazione di legami, anche se i legami chimici stessi dovevano ancora essere interpretati in termini di elettroni (cosa che avverrà solo nel XX secolo).

La visione generale di Dalton e i suoi limiti

Il modello di Dalton fu rivoluzionario, perché per la prima volta ancorava l’idea atomica a un impianto sperimentale: i dati sulle masse, le leggi ponderali e le osservazioni empiriche della chimica analitica trovarono una spiegazione coerente e unificante. Tuttavia, il modello non spiegava come e perché gli atomi si combinassero: mancava qualunque riferimento alla carica elettrica, alla struttura interna, alla natura dei legami chimici. Inoltre, non poteva rendere conto dell’esistenza degli isotopi, scoperti solo nel XX secolo, né del fenomeno delle radiazioni atomiche, sconosciuto all’epoca.

Impatto sullo sviluppo della chimica e della fisica

Il grande merito del modello di Dalton sta nell’aver trasformato l’idea di atomo in un concetto operativo e misurabile, facendo emergere la necessità di un linguaggio chimico fondato su quantità determinate. Questo aprì la strada a una chimica più matematizzata e favorì lo sviluppo di strumenti quali la stechiometria, la definizione di pesi atomici via via più accurati, la classificazione degli elementi e infine la tavola periodica di Mendeleev. Inoltre, con la scoperta dell’elettrone da parte di Thomson e la successiva formulazione dei modelli atomici di Rutherford e Bohr, le basi gettate da Dalton consentirono un’evoluzione coerente: gli scienziati del XX secolo potevano ora investigare la struttura interna dell’atomo e comprendere i meccanismi quantistici alla base dei legami chimici.

Modello atomico di Thomson

All’inizio del XX secolo, la concezione classica dell’atomo — ancora vicina a quella ottocentesca di Dalton come entità compatta e indivisibile — si trovava sotto pressione a causa di nuove scoperte. Tra queste, la più dirompente fu l’individuazione dell’elettrone, compiuta dallo stesso Joseph John Thomson nel 1897, attraverso esperimenti con i tubi a raggi catodici. Questa scoperta spezzava l’immagine dell’atomo come un “mattone” fondamentale e apriva la necessità di rivedere il modello atomico: se l’atomo conteneva particelle più piccole e cariche negativamente, doveva esistere anche una componente positiva per mantenere la neutralità elettrica.

Nel 1904 Thomson propose un modello che incorporasse l’elettrone all’interno di una struttura atomica. Il riferimento alla pasticceria britannica (“plum pudding”) fu coniato in seguito, come analogia per rappresentare gli elettroni disseminati in un volume di carica positiva diffusa in modo pressoché uniforme. In Italia è frequente l’analogia con un “panettone”, in cui i canditi (elettroni) sono immersi nella pasta (carica positiva).

Descrizione del modello di Thomson

Il modello prevedeva che l’atomo fosse una sfera di carica positiva relativamente grande, nella quale gli elettroni, particelle molto più leggere e di carica negativa, fossero “incastonati” o “immersi” in posizioni stabili. Questi elettroni non erano immaginati come entità in orbita attorno a un nucleo (il concetto di nucleo atomico arriverà solo in seguito con Rutherford), bensì come punti carichi negativamente sospesi in un mezzo positivo uniforme.

  • Carica positiva come un continuum:
    Invece di essere concentrata in un punto, la carica positiva era pensata come una distribuzione continua, una sorta di fluido elettricamente positivo. In questo modo, l’equilibrio tra la carica complessiva positiva e quella degli elettroni garantiva la neutralità dell’atomo.
  • Ruolo degli elettroni:
    Gli elettroni erano considerati come minuscole particelle cariche negativamente, scoperte tramite i raggi catodici. Il modello di Thomson doveva spiegare come questi elettroni, leggeri e soggetti a repulsione reciproca, rimanessero “intrappolati” all’interno dell’atomo. L’idea era che la distribuzione di carica positiva fornisse una sorta di potenziale attrattivo diffuso. Gli elettroni, bilanciati dalle forze attrattive e repulsive in gioco, assumevano configurazioni di minimo energetico, analogamente ai “canditi” distribuiti in maniera uniforme all’interno del “panettone”.

Implicazioni e valenza storica

Il modello di Thomson fu il primo a superare la nozione di indivisibilità atomica e ad affrontare il problema della struttura interna dell’atomo. Esso fu un “ponte” tra la teoria atomica classica e i successivi modelli di Rutherford e Bohr, che introdurranno il concetto di nucleo centrale e orbite elettroniche ben definite. Sebbene rudimentale, il modello di Thomson ebbe diversi meriti:

  • Apportare la nozione di cariche subatomiche:
    Il riconoscimento che l’atomo possiede componenti con cariche elettriche interne rappresentò un enorme passo avanti. L’ipotesi di una struttura interna costituiva un punto di partenza per comprendere l’origine delle proprietà elettriche, chimiche e ottiche della materia.
  • Preparare il terreno agli esperimenti di scattering:
    Con l’affermazione dell’esistenza di particelle subatomiche, i fisici e chimici dell’epoca iniziarono a sperimentare con particelle alfa e beta, per sondare l’interno dell’atomo. Questi esperimenti — soprattutto quello di Rutherford, Geiger e Marsden sulla lamina d’oro — scardinarono poi il modello di Thomson, aprendo la strada al modello nucleare.

Criticità e superamento del modello

Nonostante la sua importanza, il modello “a panettone” non offriva spiegazioni convincenti su alcuni fenomeni, né resse all’urto delle prove sperimentali:

  • Esperimento di Rutherford (1909-1911):
    Quando le particelle alfa (cariche positivamente) vennero sparate su una lamina d’oro, la maggior parte attraversò la lamina senza deviazioni significative, in accordo con una struttura prevalentemente vuota. Tuttavia, alcune particelle furono deviate in modo intenso, persino rimbalzando quasi indietro, indicando la presenza di una regione estremamente compatta e carica positivamente: il nucleo. Ciò era incompatibile con un atomo in cui la carica positiva fosse diffusa uniformemente.
  • Spettri atomici:
    Il modello di Thomson non poteva spiegare perché gli atomi emettessero luce solo a determinate lunghezze d’onda (le linee spettrali), né fornire una teoria coerente di come gli elettroni interagissero con la radiazione. La struttura senza nucleo e senza quantizzazione dei livelli elettronici non permetteva previsioni sulla natura discreta degli spettri atomici.
  • Assenza di un nucleo ben definito:
    La carenza più evidente era la mancanza di un centro di massa e di carica notevolmente concentrato, che il modello di Rutherford introdusse con il nucleo atomico, successivamente completato dal modello di Bohr per spiegare l’organizzazione degli elettroni in stati quantizzati.

Rilevanza storica e retaggio del modello di Thomson

Malgrado l’insufficienza del suo modello, il contributo di Thomson fu fondamentale. Inserendo l’elettrone all’interno dell’atomo, Thomson pose le basi per le teorie future. La struttura atomica divenne campo di serrate indagini sperimentali e teoriche. Senza il tentativo di Thomson di ipotizzare una configurazione interna per l’atomo, non si sarebbe aperto il percorso di ricerca che portò a Rutherford, Bohr, Moseley e, infine, alla meccanica quantistica.

In definitiva, il modello di Thomson rappresenta uno snodo cruciale nella storia dell’atomismo: un primo, imperfetto sguardo nell’interno dell’atomo, che pur essendo presto superato, fu essenziale nel gettare le fondamenta della moderna fisica atomica.

Modello atomico di Rutherford

All’inizio del XX secolo, le nuove scoperte sulla natura subatomica — in particolare l’elettrone e le proprietà della radioattività — avevano già messo in crisi il modello atomico di Thomson, che immaginava gli elettroni come piccole particelle negative immerse in una massa positiva diffusa. Serviva un metodo per sondare più in profondità la struttura dell’atomo. L’esperimento concepito da Ernest Rutherford (1911) ebbe proprio questo scopo.

Il modello “a panettone” di Thomson non offriva una spiegazione convincente di come la carica positiva e gli elettroni si disponessero all’interno dell’atomo. Inoltre, l’evidenza sperimentale necessitava di un test in grado di verificare direttamente la struttura interna dell’atomo: fu così che Rutherford e i suoi collaboratori (Geiger e Marsden) usarono particelle alfa — proiettili subatomici massicci, carichi positivamente — per “sondare” gli atomi di un sottile foglio d’oro.

L’esperimento della lamina d’oro e i risultati inattesi

Il concetto era semplice: se l’atomo fosse stato sostanzialmente omogeneo, le particelle alfa, dopo aver attraversato la lamina d’oro, avrebbero subito al massimo piccole deviazioni causate da una distribuzione di carica abbastanza uniforme. Ma le osservazioni furono sorprendenti:

  • Maggior parte delle particelle alfa praticamente non deviata:
    La maggior parte attraversava la lamina come se attraversasse lo spazio vuoto. Questo suggeriva che l’atomo fosse composto per lo più da spazio privo di ostacoli.
  • Alcune particelle alfa deviate ad angoli significativi:
    Un certo numero di particelle risultava deflesso a vari angoli, indicando la presenza di un centro di carica abbastanza concentrato da perturbare le traiettorie delle particelle cariche positive.
  • Poche, rare particelle rimbalzavano quasi indietro:
    Questo fu il risultato più clamoroso. Per giustificare un rimbalzo così netto, doveva esistere una regione estremamente densa e con carica positiva molto intensa. Un incontro così ravvicinato con una massa compatta era impossibile da spiegare col modello di Thomson.

La nascita del modello nucleare dell’atomo

Da queste evidenze Rutherford dedusse che quasi tutta la massa e la carica positiva dell’atomo fossero concentrate in un piccolissimo nucleo centrale. Intorno a questo nucleo, gli elettroni, molto più leggeri e carichi negativamente, dovevano muoversi a considerevole distanza, in uno spazio prevalentemente vuoto.

In altre parole, l’atomo non era una palla omogenea, ma un sistema gerarchizzato, con un nucleo piccolo, massiccio e carico positivamente, e attorno una “nuvola” di elettroni che occupava un volume molto più grande ma quasi privo di massa. Questa struttura spiegava perfettamente i dati sperimentali: la maggior parte delle particelle alfa, non incontrando ostacoli, passava senza deviazioni; quelle che si avvicinavano abbastanza al nucleo subivano un deflesso, e le pochissime che lo sfioravano molto da vicino venivano respinte in modo netto.

Sulla base dei risultati sperimentali, Rutherford propose un modello in cui:

  1. Nucleo centrale piccolo, massiccio e carico positivamente:
    La carica positiva e la maggior parte della massa dell’atomo sono concentrate in un volume estremamente ridotto, il nucleo. Questo nucleo, ad altissima densità, è responsabile delle deviazioni più estreme subite dalle particelle alfa: solo una carica positiva molto concentrata avrebbe potuto invertire la rotta di alcune particelle incidenti.
  2. Elettroni leggeri orbitanti attorno al nucleo:
    Gli elettroni, molto più leggeri, si distribuiscono nello spazio circostante a grandi distanze relative dal nucleo, muovendosi in qualche forma di orbita o traiettoria. Pur non essendo ancora quantizzato il concetto di orbita (cosa che farà Bohr successivamente), Rutherford concepì gli elettroni come particelle in moto intorno al nucleo, un po’ come i pianeti attorno al Sole, con la differenza cruciale che qui si tratta di interazioni elettrostatiche anziché gravitazionali.
  3. Atomo in gran parte vuoto:
    Poiché la maggior parte delle particelle alfa attraversava indenne la lamina, la struttura atomica risultava perlopiù vuota. Solo uno spazio vuoto avrebbe permesso a queste particelle, rapide e massicce, di passare senza interferenze.

Implicazioni teoriche e significato del modello di Rutherford

Il modello atomico di Rutherford segnò un passaggio dalla concezione continua della materia a un’immagine gerarchizzata e organizzata dell’atomo. Fu il primo a introdurre il concetto di nucleo atomico, una scoperta fondamentale. Questo modello riusciva a spiegare l’esito dell’esperimento di scattering, integrava la presenza degli elettroni e apriva la porta alla domanda successiva: come stabilizzare gli elettroni attorno al nucleo?

La nuova idea di atomo era dunque un piccolo sistema “planetario” su scala submicroscopica, con un nucleo positivo al centro e gli elettroni in movimento intorno ad esso. Tuttavia, tale immagine presentava subito delle difficoltà: secondo l’elettrodinamica classica, un elettrone carico in orbita dovrebbe irradiare energia elettromagnetica e quindi “precipitare” sul nucleo. Il modello di Rutherford non forniva una spiegazione su come gli elettroni si mantenessero stabili a distanza dal nucleo senza collassarvi. Questa lacuna teorica, risolta successivamente dall’introduzione della quantizzazione dell’energia nell’atomo di Bohr (1913) e poi definitivamente chiarita dalla meccanica quantistica, non diminuiva tuttavia il valore rivoluzionario delle scoperte di Rutherford.

Limiti e sviluppi successivi

Il modello atomico di Rutherford, pur essendo un enorme passo avanti, non era ancora perfetto. Rimaneva un problema fondamentale: in base alle leggi dell’elettrodinamica classica, un elettrone in moto attorno a una carica positiva dovrebbe emettere radiazione elettromagnetica, perdendo energia e finendo per “cadere” sul nucleo. Il modello di Rutherford, quindi, descriveva la struttura dell’atomo, ma non riusciva a spiegare la stabilità degli elettroni attorno al nucleo.

Questa difficoltà aprì la strada alle correzioni e alle integrazioni successive, in particolare al modello di Bohr (1913), che introdusse i livelli energetici quantizzati degli elettroni. Da lì si giunse alla meccanica quantistica, capace di fornire una spiegazione completa e coerente del comportamento degli elettroni e della stabilità dell’atomo.

Significato storico e scientifico

Il modello di Rutherford fu rivoluzionario perché:

  • Definì con chiarezza l’esistenza di un nucleo atomico, concentrando in un volume ridottissimo quasi tutta la massa e la carica positiva.
  • Aprì la strada a interpretazioni più avanzate della struttura atomica, che porteranno a comprendere isotopi, numero atomico, ruoli di protoni e neutroni.
  • Evidenziò la necessità di introdurre principi fisici più profondi (la quantizzazione) per spiegare la stabilità e la natura dei legami chimici.

Dopo Rutherford, l’individuazione del protone (scoperto come particella costituente del nucleo) e la scoperta del neutrone da parte di Chadwick (1932) completarono la comprensione della struttura nucleare. Ciò consentì di spiegare la massa atomica e l’esistenza degli isotopi, fenomeni che il modello di Rutherford rese più intellegibili introducendo una base fisica solida per la concentrazione della massa nel nucleo.

In definitiva, il modello di Rutherford fu un enorme passo avanti nella comprensione della materia: fornì l’intuizione e l’evidenza diretta che la carica positiva e la massa non sono diffuse uniformemente, ma concentrate in un nucleo piccolissimo e massiccio, attorno al quale orbitano gli elettroni. Queste idee, pur non definitive e bisognose di ulteriori sviluppi teorici, formarono il substrato indispensabile per tutti i modelli atomici successivi e per la formulazione della moderna meccanica quantistica.

Modello atomico di Bohr

Nei primi anni del Novecento, la fisica classica — fondata sulle leggi del moto di Newton e sull’elettromagnetismo di Maxwell — mostrava i suoi limiti nel descrivere i fenomeni atomici. Il modello nucleare dell’atomo proposto da Ernest Rutherford nel 1911 aveva stabilito che la massa e la carica positiva dell’atomo fossero concentrate in un piccolo nucleo centrale, attorno al quale si disponevano gli elettroni. Tuttavia, una tale configurazione, se giudicata con le leggi classiche, non era stabile: un elettrone in orbita circolare, essendo in accelerazione, avrebbe dovuto emettere radiazione elettromagnetica, perdere energia e spiraleggiare verso il nucleo in tempi brevissimi. Questo portava a una contraddizione: gli atomi, invece, sono stabili e non collassano.

Parallelamente, la quantizzazione dell’energia stava emergendo come un principio cardine della nuova fisica: Planck aveva introdotto l’idea che l’energia della radiazione termica non potesse variare in modo continuo, ma solo a “pacchetti” (quanti), ed Einstein aveva mostrato che la luce stessa poteva essere trattata come un flusso di particelle (fotoni) con energia quantizzata. L’esistenza di spettri di emissione e assorbimento a righe degli atomi, in particolare dell’atomo di idrogeno, suggeriva inoltre che gli elettroni potessero occupare solo determinati stati energetici, anziché una gamma continua di energie.

Il contributo di Bohr (1913)

Niels Bohr, danese, con un solido background in fisica teorica, combinò l’idea del nucleo di Rutherford con i principi della quantizzazione di Planck ed Einstein. L’obiettivo era conciliare la stabilità dell’atomo con la natura discreta degli spettri atomici.

Bohr assunse, in modo innovativo, che solo alcune orbite elettroniche fossero consentite, quelle per le quali l’elettrone non emette radiazione nonostante il moto accelerato. Questa ipotesi, per quanto “ad hoc”, era giustificata dal nuovo panorama teorico che stava emergendo, in cui i fenomeni microscopici non dovevano per forza obbedire alle sole leggi classiche.

I postulati del modello di Bohr

  1. Orbite stazionarie quantizzate:
    L’elettrone può muoversi attorno al nucleo solo su determinate orbite stabili, senza irradiare energia. Queste orbite sono caratterizzate da un momento angolare quantizzato, proporzionale alla costante di Planck. Il numero quantico principale n (n=1,2,3,…) identifica queste orbite.
  2. Nessuna emissione di energia nelle orbite stazionarie:
    Contrariamente alla fisica classica, l’elettrone non perde energia finché rimane su un’orbita “ammessa”. In questo modo, l’atomo risulta stabile: l’elettrone non precipita nel nucleo.
  3. Transizioni quantizzate e spettri a righe:
    L’elettrone può passare da un’orbita a un’altra. Se scende da un livello energetico più alto a uno più basso, emette un fotone la cui energia è pari alla differenza fra le energie dei due livelli. Analogamente, assorbendo un fotone di energia appropriata, può salire a un orbitale più energetico. Poiché le differenze energetiche tra i livelli sono fisse, le righe spettrali osservate sperimentalmente corrispondono esattamente a queste transizioni quantizzate.

Applicazione all’atomo di idrogeno e conferme sperimentali

Bohr applicò il suo modello all’atomo di idrogeno, costituito da un solo elettrone. Da semplici considerazioni quantistiche sull’equilibrio tra forza elettrostatica e moto dell’elettrone, derivò l’espressione per i livelli energetici ammessi. Calcolando le differenze di energia tra i vari livelli, ottenne le lunghezze d’onda delle linee spettrali dell’idrogeno, note dalle misure sperimentali (le serie di Lyman, Balmer e Paschen, tra le altre). Il perfetto accordo con i dati fu un enorme successo del modello di Bohr, il quale mostrava per la prima volta come la quantizzazione dell’energia fosse in grado di spiegare l’origine delle linee spettrali.

Limiti del modello atomico di Bohr

Nonostante i trionfi iniziali, il modello di Bohr presentava limiti importanti:

  • Atomi più complessi:
    Funziona bene per l’idrogeno e sistemi simili (un solo elettrone attorno al nucleo), ma non descrive accuratamente atomi con più elettroni. Le interazioni tra gli elettroni rendono inapplicabili le semplici ipotesi del modello di Bohr.
  • Mancata spiegazione “profonda” della quantizzazione:
    Il modello di Bohr introduceva la quantizzazione come postulato, senza una derivazione teorica solida. Questa giustificazione giunse solo con la meccanica ondulatoria di Schrödinger, Heisenberg e Dirac, che reinterpretarono gli elettroni non come particelle classiche in orbita, ma come onde di probabilità distribuite attorno al nucleo in orbitali quantici.
  • Nessuna considerazione del principio di indeterminazione:
    Il modello di Bohr utilizza un linguaggio simile a quello classico per descrivere l’elettrone su un’orbita definita. Con lo sviluppo della meccanica quantistica, si capirà che non è possibile definire simultaneamente posizione e velocità con assoluta precisione (principio di indeterminazione di Heisenberg), rendendo inadeguata la metafora dell’elettrone come un pianeta in orbita.

Contributi storici e retaggio

Nonostante i suoi limiti, il modello di Bohr fu un passo epistemologicamente fondamentale. Per la prima volta un modello atomico riusciva a prevedere quantitativamente i risultati di esperimenti su spettri atomici, incorporando il concetto di quantizzazione. Questo successo convinse molti fisici dell’efficacia dell’approccio quantistico e preparò il terreno per lo sviluppo della meccanica quantistica negli anni Venti.

Bohr stesso, negli anni successivi, contribuì all’interpretazione di Copenaghen della meccanica quantistica, fornendo un quadro filosofico alla teoria quantistica, spiegando come la realtà subatomica potesse essere descritta solo in termini probabilistici. Il modello di Bohr sull’atomo diventò così l’anello di congiunzione tra la fisica classica e la fisica quantistica: pur non essendo il quadro definitivo, fu il primo a conciliare il mondo atomico con le idee di quantizzazione dell’energia, aprendo la strada a una comprensione più profonda della struttura della materia.

In sintesi, il modello di Bohr fu la prima vera teoria quantistica dell’atomo: diede un senso alla stabilità della struttura atomica, spiegò gli spettri di emissione e assorbimento a righe, e tracciò la via per la meccanica quantistica completa, che avrebbe superato i suoi postulati ad hoc con una descrizione più fondamentale e coerente dei fenomeni subatomici.

Modello atomico quantistico

Il modello atomico quantistico, sviluppatosi nella prima metà del XX secolo grazie al lavoro di fisici come Werner Heisenberg, Erwin Schrödinger e Paul Dirac, rappresenta un sostanziale avanzamento rispetto alle concezioni precedenti (dal modello di Thomson a quello planetario di Rutherford e al modello a orbite quantizzate di Bohr-Sommerfeld). La differenza chiave rispetto ai modelli storici sta nel modo in cui vengono descritte le particelle subatomiche, in particolare l’elettrone: non più come una particella materiale che orbita intorno al nucleo su traiettorie ben definite, ma come un’entità quantistica descritta da una funzione d’onda, la quale fornisce informazioni sulle probabilità di trovare l’elettrone in determinate regioni dello spazio.

Principi fondamentali

  1. Funzione d’onda: Nel modello quantistico l’elettrone non ha una posizione definita finché non viene effettuata una misura. Lo stato dell’elettrone è descritto dalla funzione d’onda $\psi(\mathbf{r}, t)$. Il quadrato del suo modulo, $|\psi(\mathbf{r}, t)|^2$, esprime la densità di probabilità di presenza dell’elettrone in ogni punto dello spazio.
  2. Equazione di Schrödinger: L’evoluzione temporale e spaziale della funzione d’onda dell’elettrone è regolata dall’equazione di Schrödinger. Nel caso stazionario (elettrone in un atomo isolato, senza influenze esterne e in uno stato energetico ben definito), si ricorre alla forma indipendente dal tempo, che permette di calcolare gli autostati energetici dell’elettrone attorno al nucleo, ossia gli stati stazionari con energie quantizzate.
  3. Quantizzazione dell’energia: Le soluzioni dell’equazione di Schrödinger per l’atomo di idrogeno mostrano che l’elettrone può esistere solo in certi stati energetici discreti. Ogni stato è caratterizzato da numeri quantici che definiscono la sua energia, il suo momento angolare, la proiezione del momento angolare e altre proprietà.
  4. Principio di indeterminazione di Heisenberg: Un risultato cruciale della meccanica quantistica è che non è possibile conoscere simultaneamente con precisione arbitraria la posizione e la quantità di moto (ossia la velocità o l’impulso) dell’elettrone. Ciò implica che non esiste una descrizione di tipo classico con orbite ben determinate, bensì solo distribuzioni probabilistiche di trovare la particella in un certo luogo.
  5. Orbitali atomici: Dalle soluzioni dell’equazione di Schrödinger emergono le “forme” spaziali degli stati elettronici, dette orbitali. A differenza delle orbite definite del modello di Bohr, un orbitale è una regione tridimensionale dello spazio in cui la probabilità di trovare l’elettrone è alta, tipicamente il 90-95%. Questi orbitali presentano geometrie diverse (sferiche, a doppio lobo, più complesse) e sono classificati in base a numeri quantici:
    • Numero quantico principale \(n\): determina il livello energetico globale e le dimensioni dell’orbitale.
    • Numero quantico del momento angolare \(l\): determina la forma dell’orbitale \(s, p, d, f, …\).
    • Numero quantico magnetico \(m_l\): determina l’orientamento spaziale dell’orbitale.
    • Numero quantico di spin \(m_s\): descrive la proprietà intrinseca dell’elettrone detta spin, con valori +1/2 o -1/2.
  6. Principio di Pauli: Il principio di esclusione di Pauli stabilisce che due elettroni in un atomo non possono avere gli stessi quattro numeri quantici. Ciò spiega la configurazione elettronica degli elementi chimici, l’ordine con cui gli orbitali vengono riempiti e, in ultima analisi, la tavola periodica degli elementi.
  7. Probabilità e distribuzione elettronica: Nel modello quantistico non si può prevedere il percorso dell’elettrone, ma solo la probabilità di trovarlo in un certo volume. Questa concezione probabilistica risulta in accordo con i risultati sperimentali, come le righe spettrali degli atomi, il cui studio è stato uno dei principali motivi che hanno portato allo sviluppo della meccanica quantistica.

Implicazioni e importanza

La comprensione quantistica degli orbitali spiega la struttura elettronica degli elementi, la periodicità chimica, le lunghezze di legame, le geometrie molecolari (tramite la teoria degli orbitali molecolari) e il comportamento elettronico in materiali solidi (dall’isolante al conduttore, ai semiconduttori). La meccanica quantistica degli atomi è alla base della chimica quantistica, della scienza dei materiali e di molti settori tecnologici, dalle nanotecnologie all’elettronica quantistica.

  • La struttura a livelli e sottolivelli di energia degli elettroni spiegata dal modello quantistico è alla base della chimica, poiché determina le configurazioni elettroniche degli elementi e quindi il loro comportamento chimico.
  • Il modello quantistico ha un carattere predittivo molto forte: oltre a descrivere correttamente le proprietà dell’atomo di idrogeno (il più semplice), fornisce un quadro coerente anche per atomi più complessi e per le proprietà legate ai legami chimici e alle strutture molecolari.

In sintesi, il modello atomico quantistico ha sostituito l’immagine classica di elettroni come piccole sfere orbitanti con quella di entità quantistiche “diffuse” descritte da funzioni d’onda. Questo approccio probabilistico, sebbene controintuitivo rispetto all’esperienza quotidiana, si è dimostrato estremamente efficace e coerente con le osservazioni sperimentali, fornendo le basi della comprensione moderna della struttura atomica e delle proprietà della materia.

Importanza degli atomi

  • Gli atomi formano tutti gli oggetti fisici, inclusi i composti chimici e gli organismi viventi.
  • Le loro interazioni e legami chimici spiegano le proprietà e il comportamento delle sostanze.
  • Lo studio degli atomi ha portato alla comprensione delle forze fondamentali della natura e ha rivoluzionato la tecnologia (ad esempio, energia nucleare e semiconduttori).

Questa definizione bilancia semplicità e dettaglio per coprire tutti gli aspetti essenziali dell’atomo.

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1 commento su “Atomo”

  1. I ricercatori della Cornell Univerity raggiungono una risoluzione record nell’osservazione degli atomi

    Nel 2018, un gruppo di ricercatori dell’Università Cornell ha realizzato un importante passo avanti: hanno costruito un rilevatore ad alta potenza che, utilizzando un processo innovativo basato su algoritmi chiamato ptycografia, ha stabilito un record mondiale. Questo strumento è riuscito a triplicare la risoluzione di un microscopio elettronico di ultima generazione.

    Nonostante il successo, questa tecnologia presentava una limitazione significativa: funzionava esclusivamente con campioni estremamente sottili, spessi solo pochi atomi. I campioni più spessi causavano una dispersione degli elettroni troppo complessa da analizzare.

    Recentemente, lo stesso team, sotto la guida del Professor David Muller (titolare della cattedra Samuel B. Eckert di Ingegneria), ha superato il proprio record precedente, raddoppiandolo. Questo risultato è stato possibile grazie a un rilevatore EMPAD (Electron Microscope Pixel Array Detector) dotato di algoritmi di ricostruzione tridimensionale ancora più avanzati.

    La precisione raggiunta è talmente elevata che l’unico elemento che causa sfocatura nelle immagini è il naturale movimento termico degli atomi stessi.

    I risultati di questa ricerca sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista Science il 20 maggio, in un articolo intitolato “Electron Ptychography Achieves Atomic-Resolution Limits Set by Lattice Vibrations” https://science.sciencemag.org/content/372/6544/826.full

    “Non si tratta semplicemente di un nuovo record,” spiega il Professor Muller. “Abbiamo raggiunto quello che possiamo considerare il limite ultimo della risoluzione possibile. Ora siamo in grado di determinare la posizione degli atomi con una semplicità mai vista prima. Questo traguardo apre la strada a numerose nuove possibilità di misurazione che inseguivamo da tempo. Inoltre, siamo riusciti a risolvere un problema storico – la correzione della dispersione multipla del fascio nel campione, teorizzata da Hans Bethe nel 1928 – che finora ci aveva impedito di ottenere questi risultati.”

    La ptycografia utilizza un principio innovativo: analizza i modelli di dispersione sovrapposti provenienti da un campione di materiale, cercando di identificare i cambiamenti nelle zone di sovrapposizione.

    “È come se inseguissimo dei motivi di macchie luminose, simili a quelli creati dai puntatori laser che tanto affascinano i gatti,” spiega Muller con un’analogia efficace. “Studiando come questi motivi si modificano, riusciamo a ricostruire la forma dell’oggetto che li ha generati.”

    Il sistema funziona con un rilevatore leggermente sfocato, che diffonde il fascio per raccogliere la maggior quantità possibile di dati. Questi vengono poi elaborati attraverso algoritmi complessi, producendo immagini di precisione straordinaria, nell’ordine del picometro (un trilionesimo di metro).

    “I nuovi algoritmi ci permettono di correggere ogni tipo di sfocatura del microscopio,” continua Muller. “L’unico fattore di sfocatura che rimane è il movimento naturale degli atomi stessi, inevitabile a temperatura normale. Quando parliamo di temperatura, in realtà stiamo misurando la velocità media con cui gli atomi vibrano.”

    Teoricamente, il team potrebbe migliorare ulteriormente il record utilizzando materiali con atomi più pesanti, che vibrano meno, o raffreddando il campione. Tuttavia, anche a temperatura zero, gli atomi mantengono un certo livello di fluttuazione quantistica, quindi i margini di miglioramento sarebbero limitati.

    Questa nuova versione della ptycografia elettronica offre agli scienziati la possibilità di localizzare singoli atomi nelle tre dimensioni, anche quando altri metodi di imaging non riescono a rilevarli. I ricercatori possono inoltre individuare atomi di impurità in configurazioni insolite, osservandoli e studiandone le vibrazioni individualmente. Queste capacità risultano particolarmente preziose per lo studio di semiconduttori, catalizzatori e materiali quantistici – compresi quelli utilizzati nel campo del computing quantistico – oltre che per l’analisi degli atomi nelle zone di giunzione tra materiali diversi.

    Le applicazioni di questa tecnologia si estendono anche al campo biologico: potrebbe essere utilizzata per studiare cellule e tessuti biologici spessi, o persino le connessioni sinaptiche nel cervello – un’applicazione che Muller definisce “connectomics su richiesta.”

    Sebbene la metodologia richieda tempi lunghi e notevoli risorse computazionali, le sue prestazioni potrebbero essere ottimizzate utilizzando computer più potenti, tecniche di machine learning e rilevatori più veloci.

    “Il nostro obiettivo è applicare questa tecnologia a tutti i nostri campi di ricerca,” afferma Muller, che ricopre il ruolo di co-direttore dell’Istituto Kavli per la Scienza Nanoscala della Cornell e co-presiede la Task Force di Ingegneria Nanoscala e Microsistemi (NEXT Nano), parte dell’iniziativa di Collaborazione Radicale dell’università. “Finora è stato come se avessimo tutti usato occhiali di scarsa qualità. Ora abbiamo finalmente un paio di occhiali eccellenti. Perché non dovremmo sostituire i vecchi con i nuovi e utilizzarli costantemente?”

    Allo studio hanno contribuito numerosi ricercatori, tra cui Darrell Schlom, Professore Herbert Fisk Johnson di Chimica Industriale; Yi Jiang, che ha conseguito il dottorato nel 2018 e attualmente lavora come scienziato dei dati beamline presso il Laboratorio Nazionale Argonne; i ricercatori post-dottorato Yu-Tsun Shao e Megan Holtz (PhD 2017); oltre a ricercatori dell’Istituto Paul Scherrer e dell’Istituto Leibniz per la Crescita dei Cristalli.

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